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L'ultima volta che era venuto al San Paolo, Jurgen Klopp, il mefistofelico allenatore del Liverpool, indossava i colori del Borussia Dortmund. Per il Napoli in panchina c'era Benitez e al centro dell'attacco, al posto di Milik, Higuain e tuttavia, cambiando l'ordine dei fattori, il risultato non è cambiato. Esattamente come cinque anni fa, quando perse due a uno senza riuscire manco a mettere una scopa perchè persino il gol tedesco fu un autogol del Napoli, ieri Klopp se n'è andato da Fuorigrotta con quella che utilizzando una metafora un poco ardita potremmo definire 'una mano annanz' e una mano aret'.
A castigarlo, proprio come cinque anni fa, un napoletano doc: Lorenzo Insigne. Con un gol al novantesimo che deve aver fatto perdere parecchio le staffe al coach della squadra inglese. Non solo e non tanto perchè ormai pensava di aver agguantato il pareggio quanto perchè fino a quel momento la sua squadra, celebre per i velocissimi attaccanti e le poderose ripartenze, non aveva fatto nemmeno un tiro in porta. Zero. Merito di un Napoli galvanizzato dalla sconfitta con la Juve? Certo. Ma anche di un San Paolo pieno e incitante senza sosta i suoi eroi. Lo stesso Insigne aveva chiesto più volte alla curva di cantare più forte. Ed è stato accontentato. Così come è stato accontentato Ancelotti che mettendo in campo una squadra rivoluzionata nei ruoli e nel modulo ha ottenuto dai suoi la più cieca obbedienza. Dopo aver smontato qualsiasi iniziativa rossa, ad esempio, Koulibaly ha fatto l'esterno alto, l'attaccante di sfondamento e infine il capo ultras per i cori sotto alla curva. Perchè questa vittoria è anche la loro: lo diceva pure John Lennon: 'You may say I'm a dreamer, but I'm not the only one'. E quando a sognare sono in molti, i sogni si avverano. Il Mattino.
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