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Nel giorno del trentennale del primo scudetto del Napoli, uno dei protagonisti di quell'armata invincibile, Salvatore Bagni detto "O Guerriero", ha rilasciato una lunga intervista sui taccuini del Corriere dello Sport. Ecco quanto evidenziato:
«Guerriero», ma fu una guerra? «Ma solo per modo di dire: avevamo capito presto, sin dal ritiro, che sarebbe stato il nostro anno. Diego tornò da Campione del Mondo, segnando quello che resta il gol più bello di sempre: era un leader riconosciuto, il calciatore che ci invidiavano ed il genio che aveva trascinato l’Argentina alla conquista del Mondiale attraverso un talento infinito».
Ma ci fu un segreto? «Volare basso, perché tutto quello che sentivamo dentro non doveva trasparire all’esterno. Le pressioni erano già tante, ed anche le attese, e la concorrenza era di spessore. Poi è chiaro che il resto venne da sé, cammin facendo. Ma cercammo sempre di restare apparentemente distaccati».
Trent’anni e siamo ancora lì. «Io non mi sono mai staccato, calcisticamente, da quelle emozioni. Napoli è una città solare, fantastica, con gente meravigliosa che non smette di dimostrarti il suo amore. All’epoca s’usava dire del pubblico: il dodicesimo uomo in campo, ma noi giocavamo in tredici ed anche in quattordici».
Negli undici non eravate poi così male… «Ma scherza! Carnevale e Giordano in attacco: chi non li ricorda, o non li ha mai visti, vada a ritrovare sui social il gol alla Fiorentina, tanto per dirne uno. Un centrocampo con il sottoscritto, De Napoli e Romano. Dietro, per segnarci dovevano abbatterci: avevamo una forza fisica ed una intelligenza, tra Garella e ognuno dei difensori, di raro effetto. Fu una fusione magica».
Si cerca sempre una svolta. «Ce ne furono varie, nel corso della stagione, ma nessuna ebbe l’effetto energizzante che ci diede Maradona da Città del Messico: eravamo già consapevoli della sua forza, perché lo vedevamo tutti i giorni, ma quella impresa servì per caricarci ulteriormente, spiegò a noi, semmai non l’avessimo capito, con quale tipo di marziano avessimo a che fare».
Cosa ha significato quello scudetto? «Bisogna calarsi in quell’epoca e facendolo vanno tenuti presenti vari aspetti: politici e socio-economici. Il Napoli ha fatto la rivoluzione, dunque ha rappresentato un momento storico. E’ stato un capolavoro collettivo, della società, della città, della squadra, del tecnico, che ha cancellato anni ed anni di sofferenze e scritto una pagina unica. Perché in quel momento, con quel titolo, si celebrava un progetto cominciato in precedenza e poi destinato a continuare ancora».
Dunque, un Maradona, c’è solo un Maradona. «Quello è certo, non ne ho più visti in giro, né credo avrò la fortuna di scorgerlo. Però è anche vero che quel Napoli lì aveva attributi veri, una squadra tecnica ed anche caratteriale, uomini che non hanno mai mollato, né l’avrebbero fatto. Eppure difficoltà, com’è giusto che sia, ce n’erano».
La concorrenza non scherzava. «Battemmo la Juventus di Platini, l’Inter allenata da Trapattoni che aveva Passarella, Zenga, Bergomi, Tardelli, Rummenige e Altobelli, il primo Milan di Berlusconi con Liedholm inizialmente in panchina e Baresi, Costacurta, Donadoni, Evani, quelli che avrebbero conquistato poi tutto. Certi dettagli svaniscono dalla memoria, ma noi strapazzammo autentiche potenze del calcio».
Cos’ha lasciato quel 10 maggio? «Un patrimonio ed anche la dimostrazione che certi miracoli si possono realizzare. E’ vero ch’è cambiato il mondo ed il calcio, adesso, è sempre più nettamente dominato dai soldi contro cui solo idee eccezionali possono: il Napoli però rientra tra le eccellenze del calcio italiano, ne è protagonista con il suo stile e la sua filosofia. Ed in Europa ha fatto splendide figure. Il solco è quello buono».
Lei arrivò tre anni prima. «Con Diego, praticamente. E fu in quella estate in cui si notò la prima posa di un progetto che ci avrebbe portato allo scudetto: se acquisti Maradona, vuol dire che hai intenzione di dominare. Così fu. Ci arrivammo per gradi, com’era inevitabile che accadesse, perché nulla avviene per caso».
Lei e Diego... «Nulla che non sia già stato scritto, ahivoi: è stato, e rimane, un affetto speciale, fraterno. Ma lui è socievole con chiunque dimostri di meritare i suoi slanci. Ho avuto il piacere di condividere un quadriennio in campo ch’è stato fantastico ma soprattutto di restare legato ad una persona squisita con cui è sempre delizioso incontrarsi, parlarsi».
Lei e Napoli. «E’ un po’ casa mia: ci vengo ogni volta ch’è possibile, ho talmente tanti amici che sono in imbarazzo, perché rischio sempre di far torto a qualcuno. Non mi sono mai staccato, ho avuto modo di lavorarci successivamente, ma nel periodo più difficile dell’era Ferlaino. Ed ho grandissima stima di De Laurentiis, ch’è stato capace di interpretare in maniera moderna questo mondo».
Trent’anni sono volati via. «Però mi accorgo che hanno lasciato tracce in chiunque e questa ricorrenza ne è la testimonianza. C’è la voglia di rivivere, in tutti gli amici con cui parlo, quella stagione che scatenò un delirio di massa. Io posso raccontare di esserci stato, di averla vissuta, di rientrare – con tutti i compagni di squadra e le componenti della società, i tecnici, i dirigenti, ma anche qualsiasi collaboratore – tra i protagonisti. Esagero se dico che quella è stata una vittoria epica?». REDAZIONE - Antonio De Crecchio.
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