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serie a
(Getty Images)
Ciò che è accaduto a Milano ieri fa riflettere ma fa soprattutto schifo: una frangia di Ultras ha costretto dei "normali tifosi" a lasciare il settore per una protesta o una commemorazione organizzata di uno di loro. Un criminale pluripregiudicato, deceduto ed ex storico capo di un gruppo di tifosi organizzati dell'Inter. Già su quest'uomo e sull'importanza di commemorarlo durante un evento trasmesso in tutta Italia e non solo si potrebbe scrivere un saggio universitario e sociologico, ma ci concentriamo principalmente sulla cacciata della povera gente che aveva pagato per vedere le giocate di Barella. I tiri di Lukaku. I dribbling di Correa. Gli inserimenti di Gosens. NON per partecipare ad un'insulsa e politicizzata movimentazione popolare di un misero mucchio di Ultras. Gli stessi che sicuramente riempiono gli stadi di gioia e di urla ma che sono per lo più - nell'ordine -: 1) incolti e rozzi 2) illetterati 3) spesso legati alla criminalità 4) violenti 5) tossici 6) irrispettosi di qualsiasi regola 7) portatori di valori "politici" estremi nel calcio 8) totalmente superflui. Questo dominio del tifo organizzato deve finire in tutti gli stadi italiani.
Parliamo di dominio perché di questo si tratta, anche ideologicamente e anche per i media stessi. Di chi si parla, quando si descrive il "tifo" di un ambiente, di una squadra, di una città? Ci si riferisce spesso a 100, 500 persone che tra loro si organizzano e inventano cori. Espongono striscioni. Si arrogano il diritto di capire di pallone e vogliono cacciare i presidenti, umiliare i giocatori. Minacciano gli avversari e idealizzano gli altri 500 personaggi dell'altro tifo come se fossero la città intera. La parte per il tutto (ma non è che si intendano di metonimie o di sineddoche). Ripetiamo ancora: il tifo caldo è bello. È straordinario a Roma, a Napoli, a Milano, a Torino. Sono belli i tormentoni, i cori. Ma questo non significa che non vadano puniti dei gesti estremi e che questi debbano sentirsi pure portatori della mentalità di una città, di una squadra e di un club. Il club Napoli è Aurelio De Laurentiis e i suoi cittadini che sono tre milioni e mezzo di abitanti, non 500. Non 10mila nemmeno. Neanche i 60mila che guardano il Napoli ad ogni partita. Il tifo è straordinario anche ad Anfield dove gli hooligans sono anche peggio ma vengono rispettate le regole altrimenti è carcere immediato. Le urla, i canti devono essere una risorsa ma deve tutto rientrare nella legalità e nel rispetto, soprattutto nella cultura. Un tifo è espressione della cultura di un popolo. Il calcio è tifo ed il calcio è popolo. Ma perché i media e le persone stesse non si discostano da questo modo di pensare? Perché il tifo interista è idealmente rappresentato dalla Curva Nord e non da un qualunque Gianpiero Fumagalli che guarda la partita dalle Tribune da persona comune? Perché i media hanno paura. Perché le persone comuni hanno paura. Senza parlare degli insulti razzisti, dell'omofobia, degli insulti sui social. È ovvio che (sarebbe assurdo) non si sta parlando di richiedere una laurea all'ingresso di una Curva, però di rispettare la libertà degli altri beh, quello sì. Che sia a priori o a posteriori (punendo. PUNENDO! ndr). Qualcuno dovrebbe urlare in TV che ci sono delle persone che vanno allo stadio per fare male, per lanciare oggetti sugli avversari venuti da una città lontana solo perché nel 1943 uno di loro avrà scippato una macchina a uno dei nostri, che non guardano la partita. Non la guardano. Che fanno politica, almeno secondo loro. Che si sentono una Patria. Sono valori di estrema destra e fortemente retrogradi. Al bando.
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