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Crotone, Messias: “Bevevo e volevo smettere di giocare. Ora Dio mi ha cambiato e gioco in Serie A”
Una lettera che JuniorMessias, attaccante brasiliano del Crotone, ha scritto per Cronache di Spogliatoio. Un racconto sella sua vita turbolenta e della sua passione per il calcio. Delle parole toccanti che raccontato il coronamento di un sogno.
Il racconto di Messias:
“Troppo forte Mico. Rallenta. E invece acceleravo, sempre di più. La macchina era un rottame, un pezzo di ferro arrugginito che sbuffava ogni volta che spingevo il piede sull’acceleratore. Il volante tirava tutto da una parte, dovevo imprimere forza per mantenere la rotta dritta. Stavo percorrendo una strada sterrata, meno di un chilometro e sarei arrivato all’ingresso della statale. Ero stato al matrimonio di mio fratello ed ero completamente sbronzo, troppo alcol in corpo e zero minuti di sonno. Ho chiuso gli occhi per un istante, uno solo, non me ne sono nemmeno accorto. Poi un tonfo, sono finito fuori strada in mezzo ai campi. Potevo essere morto, ma qualcuno mi ha salvato. Tra poco vi dirò chi mi ha liberato dal fango di quel campo bastardo, ma andiamo con ordine”.
“Festa, festa, troppa festa. Tanto che di cazzate nella vita ne ho fatte. Come quella volta al matrimonio di mio fratello, quando qualcuno mi liberò dal fango. È stato Dio a salvarmi. E lì, in quella notte fra le campagne brasiliane mentre stavo perdendo me stesso, ho conosciuto per davvero il Signore. Sono credente, nel modo più vero che esista. Tutto quello che faccio ha un senso e lui mi ha protetto con le sue mani. Per anni prendevo la moto, uscivo, bevevo, e mi perdevo. E ancora Dio a prendersi cura di me”.
“Ricordo quando sono arrivato in Italia. Dite che speravo di diventare un calciatore professionista? Assolutamente no, guardate che ero già abbastanza grande, ero un fuori quota a tutti gli effetti. A dir la verità pensavo di non essere all’altezza neanche di fare l’Eccellenza. Io il calcio lo amavo, ma non era mai stato un piano per la vita. Era uno svago, uno dei motivi, non il punto d’arrivo del mio tragitto. Fu mio fratello a convincermi a partire. Torino, quartiere ‘Barriera di Milano’. Mille culture, abbastanza opportunità. Lavoravo nel cantiere di un italo-argentino, pulivo i mattoni che i suoi carpentieri staccavano dagli edifici demoliti. Io li rimettevo a nuovo, uno a uno. Mi dava 20 centesimi per ogni mattone tirato a lucido. Ho messo da parte i primi soldi e sono riuscito a restare qui. Non era tanto, ma era abbastanza. Sono rimasto per anni nei cantieri, diventando successivamente muratore. A me piaceva andare a lavorare, non sono uno di quelli che si piange addosso. Credo che il lavoro sia una di quelle cose che ci salva, niente arriva a caso. Quella era ed è l’unica strada”.
“In un secondo momento diventai anche fattorino, portavo i pacchi e facevo le consegne di elettrodomestici. Questo lavoro me lo trovarono i miei amici peruviani, che poi erano i miei compagni di squadra nello Sport Wariqe, nel campionato UISP di Torino. Il momento più bello della giornata era quando qualche anziano mi chiedeva di entrare per parlare o prendere un caffè. Non consegnavo solo in città, ma anche nelle zone limitrofe: Chieri, Pino Torinese, tutti posti dove l’età media è più alta. E gli anziani si sa, molto spesso si sentono soli. Un po’ come me, che avevo la famiglia distante e lottavo senza qualcuno che mi abbracciasse la sera sul divano. Capitava di stare anche quaranta minuti nelle case di signori o signore che volevano scambiare quattro chiacchiere, condividere i racconti di quando erano giovani, ascoltare i miei. Questo è quello che facevo in Italia fino a poco tempo fa. Il calcio era solo una passione da coniugare nel tempo libero con il lavoro”.
“Volevo smettere di giocare a calcio. Mi fa effetto scriverlo adesso. Misi la mia storia nelle mani di Dio. Ero seduto con il pastore della Chiesa che frequentavo: «Voglio dire basta, ma voglio che sia il Signore a darmi un segnale. Non voglio farlo di mia spontanea volontà, voglio che ci sia qualcosa che mi faccia dire: ‘Ok, Junior, basta’». Da quel momento si sono aperte tutte le porte. Io non avevo documenti, erano anni che cercavo di riceverli e regolarizzarmi. Accadde che un giorno mi arriva la comunicazione: «Puoi venire in Questura a ritirarli». E il giorno dopo Ezio Rossi, ex calciatore che avevo conosciuto alla fine di una partita UISP, mi chiamò per dirmi che aveva finalmente trovato una squadra da allenare. Mi aveva proposto di andare al Fossano, da un suo amico, ma mi proponevano 700 euro al mese e io non sarei mai riuscito a farmeli bastare. Con un figlio e una moglie in Brasile, come fai? Ne guadagnavo 1200 lavorando. Ma poi Ezio a Casale poteva cambiarmi la vita. «Senti Junior, vieni qui. Fai qualche giorno di prova e, se va tutto bene, parlo io col presidente». Non trascorsero neanche due giorni che mi disse: «C’è un contratto da 1500 euro al mese per te. Non dovrai pensare a nient’altro, solo al calcio’”.
“Il primo gol in Serie A è stato un sollievo. L’anno scorso ho iniziato a soffrire di ansia. Quando non va bene, ti fermi a pensare. Avevo attacchi improvvisi che non mi facevano dormire per tutta la settimana. Pensavo, ad esempio, a quando avrei dovuto prendere l’aereo per andare in trasferta. E non dormivo. Notti insonni trascorse a fissare il soffitto, a girarmi nel letto e non soffocare. Credo che sia tutto motivato. Il mio primo gol tra i professionisti lo ricordo bene. Calcio di punizione, grande mischia in area. Batto, la traiettoria attraversa un mucchio di persone e termina in rete. Andate a vedervi la mia rete contro il Bologna, l’ultima che ho segnato. Volevo lasciare il calcio per predicare la parola di Dio. Ma lui mi ha dato un segnale. Quello che aspettavo. Eccomi qui”.
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