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Garcia a Napoli, felice e spavaldo come un’artista per la sua nuova sfida
La Gazzetta dello Sport presenta il nuovo tecnico del Napoli Rudi Garcia attraverso l'arte. Presentato nel museo di Capodimonte come se fosse una opera d’arte, in realtà è un artista come ha precisato il direttore, Sylvain Bellenger, paragonando i calciatori alle ballerine, ed è subito Edgar Degas, la cui famiglia a Napoli ebbe molta fortuna. La stessa che serve a Garcia e ai suoi intenti plurali.
"Niente nomi in particolare, niente favoritismi, deve prima conoscere gli uomini che ci sono dietro i calciatori. Tranne Anguissa, «l’ho fatto esordire io a Marsiglia, quindi lo conosco bene, c’est un peu mon petit: è un po’ il mio piccolo», e un «fantastico» per Lobotka, tirato con le pinze. Nasce il Napoli dagli occhi azzurri, quelli di Aurelio De Laurentiis e di Rudi Garcia. La prima parola che pronuncia è «ambizioni», quella sulla quale inciampa è «insostituibili», poi ripete alla tedesca con la zeta al posto della esse. Il resto è sogno. De Laurentiis tra una invettiva – immancabile – contro l’Uefa e il suo racconto della competizione quotidiana anche con lo specchio, appoggia sulle spalle di Garcia una finale di Champions League, che era proprio il peso che Luciano Spalletti si era tolto. Uno zaino pesantissimo. Rudi, come tutti lo chiamano, forse perché come accaduto a De Laurentiis l’hanno incontrato nelle vite precedenti, tra un film con Almodovar e uno con Woody Allen, forse si son visti tutti in “Midnight in Paris”: dove il regista newyorkese faceva incontrare al suo personaggio Hemingway e Dalì.
Di Giuntoli, invece, almeno ufficialmente nessuna notizia. Chissà. Quello che si sa è che Garcia è uno sfrontato, non solo nel gioco ma anche nelle parole. Il suo italiano corre via veloce, la sua fermezza non inciampa nemmeno sull’avvicendamento con Spalletti, «un occhiolino del destino» ed è subito Ornella Muti. Sicuro, spavaldo e pronto allo slancio del nuovo inizio. Alle parole sulle casacche contrappone i valori, normale per uno cresciuto in provincia con un padre allenatore, morto guardando giocare la sua squadra, il Lilla, senza capire una sua scelta: «Ma non fa giocare De Melo», le ultime parole. Perché Garcia gli aveva preferito Fauvergue. Poi aveva organizzato la partita successiva, prima di partire per il funerale, un gesto alla Michael Schumacher. Ecco Garcia è apparso un pilota di Formula Uno: che va incontro alle curve cosciente del proprio manico. E accelera, smarcandosi anche dall’ombra che gli proietta addosso chi pensa che essere andato ad allenare nel deserto, all’Al-Nassr, sia stato un passo verso la pensione. Per lui è stata una Parigi-Ronaldo come se fosse la vecchia Parigi-Dakar. È tornato al calcio di prima linea, in una società virtuosa che prima di spendere ci pensa su più di quanto impiegasse Degas tra una pennellata e l’altra, e mostra tutta la felicità. È tornato alla vita, che poi è la Champions League. Anche se arrivare in finale è come scalare le otto montagne.
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