E Conte?
«Capitano e leader della Juve di cui io ero dirigente accompagnatore, con Lippi e Ancelotti in panchina. Personalità assoluta, il tramite tra allenatore e squadra, dettava ordini ai compagni. Si capiva che era un predestinato».
Lo portò a Siena come vice di De Canio.
«Antonio stava completando il corso da allenatore a Coverciano: gli suggerii questa opportunità per iniziare il lavoro sul campo a Siena e continuare a studiare a Firenze. Poi lo portai a Bari: salvò la squadra il primo anno e centrò nel secondo la serie A. Era giovane e un po' impulsivo, andò via temendo che non sarebbe stata allestita una squadra competitiva. Ci saremmo rivisti a Siena: altra promozione».
E lei suggerì Conte alla Juve?
«Suggerire... Conte non aveva bisogno di segnalazioni, però dissi ad Andrea Agnelli che avrebbe fatto la scelta giusta. E infatti Antonio fece subito vincere la Juve».
Generazioni diverse, Claudio e Antonio. Uniti da cosa?
«Dalla passione che continua ad animarli anche dopo tante esperienze e tanti successi. Hanno un amore profondo per il calcio e gestiscono bene il gruppo, anche se con modalità differenti: Ranieri ha toni più dolci, Conte è più aggressivo perché pretende molta intensità».
Entrambi erano legati a sua figlia Emanuela, scomparsa giovanissima il 29 novembre di un anno fa: la stroncò l'anoressia.
«Pochi giorni dopo la sua morte, mi telefonò la psicologa che l'aveva in cura e mi disse che una ragazza, colpita dalla storia di Emanuela, aveva deciso di affidarsi ai genitori e ai medici per guarire. Da quel momento ho continuato a lottare».
Cosa significa lottare?
«Tentare di trasformare il dolore in un'opportunità. Faccio tanti incontri per raccontare l'esperienza che ho vissuto con mia figlia, scomparsa a soli 33 anni, e sottolineare la problematica dei disturbi alimentari. Bisogna, appunto, lottare contro l'anoressia e la bulimia, malattie subdole con numeri molto preoccupanti. Questa missione mi ha dato la forza per andare avanti. Ci sono tante giovani vite che si possono salvare».
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