Non fu l’unico momento di tensione del periodo interista. Conte strappò più volte con la dirigenza. Nonostante al vertice del club ci fosse Marotta che lo volle ad ogni costo. E per lui sacrificò un certo Luciano Spalletti. Strappi costruttivi, direbbero gli psicologi di coppia. Per spingere il club a un livello superiore. In fondo era nei patti. Conte, emblema dell’odiata Juventus, fu chiamato all’Inter proprio per porre fine all’oltraggioso dominio bianconero (otto scudetti di fila, poi diventati nove). Per cercare di trasferire nel Dna del club la feroce determinazione che conduce alle vittorie. Per far attecchire un metodo di lavoro. Quel metodo che qualcuno definisce ossessivo. Dimenticando che senza l’ossessione i propri limiti non si superano. E in due anni ci furono un secondo posto, la finale di Europa League e lo scudetto che mancava dal 2010 e da Mourinho. Lo scudetto che pose fine alla dittatura della Juventus.
Due anni vissuti ad altissima intensità. Due anni che hanno lasciato un segno profondo, ancora visibile. Conte ha rivoltato l’Inter come un calzino. Persino l’inno ha cambiato. Quel “pazza Inter” non era di suo gradimento. Lo disse il primo giorno.
«La mia Inter non sarà pazza, ma regolare e forte. Vogliamo ritornare ai fasti di un tempo». L’inno fu cambiato. A Napoli, recentemente, ha lanciato una frecciata che non è passata inosservata: «Anche all’Inter, quando arrivai, Appiano Gentile era un disastro, abbiamo lavorato molto sui campi, sulla foresteria, ora è un fiore all’occhiello». In questa frase c’è tutta la distanza tra sé e il club. I tifosi sono divisi, non proprio equamente. Da un lato quelli che lo hanno accusato di aver abbandonato la nave alle prime difficoltà finanziarie, di non essersi voluto scorciare le maniche e lavorare in ristrettezze. Insomma un traditore. O uno juventino: è lo stesso per buona parte dell’ambiente interista. Anche Moratti parlò di scarso attaccamento (poi Conte disse che i due si erano chiariti). Dall’altra parte, oggi minoranza, quelli che gli hanno invece riconosciuto che senza di lui l’Inter non avrebbe mai vinto né il primo né il secondo scudetto (quello con Inzaghi). E nemmeno in finale di Champions sarebbe arrivata. Perché senza di lui la ricostruzione sarebbe stata molto più complessa, per non dire impossibile. Nella frase «posso solo dire che il mio progetto non è mai cambiato» c’è un misto di delusione e risentimento da parte di chi si era gettato a capofitto nell’universo Inter e ha poi dovuto prendere atto che le regole del gioco erano cambiate. I contabili del tifo possono sbandierare che per Conte l’Inter ha speso più che per Inzaghi. Lui risponderebbe che ha fatto spendere ma anche incassare (vedi cessioni di Lukaku e Hakimi).
Domenica sera Conte troverà San Siro pieno. Quella sensazione che da interista ha potuto vivere raramente. Il suo è stato il biennio del Covid. Un amore per corrispondenza. Via chat. Forse meno carnale. Ma non meno coinvolgente. È un’incognita l’accoglienza che gli sarà riservata. L’ultima volta che affrontò l’Inter da avversario a Milano, era settembre 2013. Inter-Juventus 1-1, lui era sulla panchina bianconera. Mai avrebbe immaginato che undici anni dopo sarebbe tornato in quello stadio da ex. Discusso. Controverso. Da qualcuno anche rimpianto. Certamente indimenticato".
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