A Luciano Spalletti e alle sue capacità di allenatore non si potrà dire niente per un secolo a Napoli: ha fatto un terzo posto e uno Scudetto storico. Ha chiuso un cerchio e allo stesso modo lo ha aperto. Ha fatto breccia nella squadra, che è al numero uno tra le priorità in un club di calcio. Ha insegnato a comunicare, quindi a fare e a dire. E pure a nuotare nel famigerato mare che c'è di mezzo, la fase di nessuno come ama chiamarla. Ha incontrato il criticismo spicciolo di molti (quasi tutti) e lo ha azzittito su quel palco di Dimaro ma soprattutto sul campo. Ha chiesto l'aiuto del tifo e si è prodigato pur sapendo che avrebbe lasciato a fine anno. Una decisione così non si prende per un diverbio o per un contrasto, ma per un piano di vita. Spalletti ha deciso con i suoi figli di scegliere il Napoli e allo stesso modo avrà deciso di prendersi tempo per se stesso. Per guardarsi allo specchio questa volta da vincente, svegliandosi sempre in forma ma senza farsi deformare più da nessuno. Si è tatuato il Napoli sul braccio perché ha scoperto di essere sempre stato napoletano e di aver condiviso questa cavalcata con il suo meraviglioso team perché così c'era scritto nel destino: quello degli uomini forti. Al 5-1 alla Juve, ai Quarti di Champions, ai piedi per terra, agli sguardi sornioni in conferenza stampa, ai larghi sorrisi, ai nomi e cognomi fatti per indicare i ciarlatani con l'indice chiaro e teso, al 6-1 ad Amsterdam ma anche al 2-4 in casa contro il Barcellona, giocato male ma tutto di idee e filosofia. Ai "il calcio è semplice, a me non garba stare tutti dietro la palla", e "ho sempre perso ca***, per una volta che vinco mi fai la morale". Ai rigurgiti dei complimenti di Guardiola, all'emozione per il fratello Marcello, alle corse in campo ad abbracciare i calciatori. Alla strenua difesa delle proprie continue nuove idee.
Un grazie speciale, professionale e non
Mattia Fele
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