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editoriali

Costruire dal basso nel pallone come in carriera: all’uomo Luciano, da sempre se stesso

Anguissa
Spalletti ha sempre fatto calcio, dovunque sia andato. Ha inventato la costruzione a 3+1 in Italia, lo smarcamento centrale del terzino. Il falso nueve, il trequartista del 4-2-3-1. Poi ha vinto e se n'è andato, come gli eroi
Mattia Fele
Mattia Fele Editorialista 

Un paio di stivali alti e neri, una bici a zonzo per Dimaro Folgarida in cerca di un angulus per pensare, tirar su un po' d'aria fresca. Spalletti è stato per Napoli maestro e allievo, vittima e martello per i suoi tifosi. È sempre rimasto se stesso sia che le onde gli si infrangessero addosso o che le cavalcasse, pur essendo un tipo da montagna. Ha iniziato in giacca e cravatta ed ha finito tra la gente, passando per i giri di campo con le scarpette del suo passato e gli autostop della vita. Mai in prima classe. Intanto anche a Napoli ha fatto calcio e lo ha fatto bene, creando compatibilità e dando senso pure al concetto di aziendalismo di cui tanto si sente ciarlare in giro: ha creato valore e valori. Non ha solo scelto - dopo tempo, una stagione intera - il 4-3-3 creandone armonie ed equilibri - ha pure educato l'ambiente, ha parlato con la voce del saggio ai bambini a Castel Volturno intimandogli lo studio come regolamento d'uso dell'esistenza. Poi ha provato a far capire cosa significasse remare tutti insieme: ai calciatori, ai magazzinieri, ai giornalisti stessi. Ha studiato tutti i dettagli dal primo all'ultimo, in ogni ambito.

La difesa

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Per Spalletti non sarà stato semplice doversi proteggere dagli attacchi di una piazza spesso ingrata, talvolta maltrattante o comunque ingiusta e dalle tante dicerie che sventolavano pure i quotidiani più importanti sul suo conto. Ha un caratteraccio, non conosce il compromesso, non cura la fase di non possesso, non è adatto a vincere, non sa gestire le grandi personalità, non regge l'autorità e via dicendo. Ha dovuto innanzitutto fare linea alta e fuorigioco contro i suoi detrattori, a partire dall'interno di se stesso. Poi ha pòsto questa meraviglia di autocoscienza sul campo: ha trovato Kim in un uovo di Pasqua estivo e lo ha convinto di poter giocare anche col suo piede debole. Ha insegnato a Rrahmani (preso per sostituire Koulibaly, inserito - piano - da Gattuso) col tempo la lettura del gioco con tanti metri alle spalle. Ha scelto Di Lorenzo come capitano insieme a tutto il resto della squadra, per motivi tecnici e non e si è rivelata la scelta più azzeccata in questo senso forse di tutta la storia del Napoli. Poi anche a lui ha dato qualche indicazione di campo, sulla linea degli insegnamenti di Pep. Tu sarai un tuttocampista, come una persuasiva voce fuori campo. E così è andata.


Il centrocampo a tre

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Spalletti-Santoro-Giuntoli o anche il trio dell'equilibrio. In mezzo tra squadra e presidente, viatico di tutti i passaggi tra dentro e fuori. Il confronto continuo per attenuare, attutire, rinvigorire. Trovare forza e pure dare forma alla realtà: Beppe, Cristiano, ma sarà vero ciò che stiamo facendo? Vedo bene? Siamo primi? Sì, Luciano. Poi testa al campo e occhi alle stelle, come gli piace dire. Anguissa-Zielinski-Lobotka stanno bene in questo discorso di bilanciamenti: sono il centrocampo più completo che abbia avuto il Napoli e che abbia allenato Spalletti stesso. Non sono individualità da capogiro, ma la compatibilità del collettivo in un ambiente sano fa tutta la differenza. Si pensi a Klopp che ha vinto una Champions con Fabinho-Henderson-Wijnaldum. Integrità di valori e compenetrazione di volontà. Così Spalletti nel suo dialogo è stato treccia legante con la città e i suoi sogni ma ha anche dovuto farsi aiutare. Ha avuto l'umiltà di chiedere aiuto, poi ha vinto ed ha rilasciato tutta l'adrenalina. In un grossa espirazione a polmoni spalancati.

L'offesa e l'attacco

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Kvaratskhelia e Osimhen. Il talento che nessuno si aspetta perché tutti credono di conoscere il calcio ed è visto materia solo europea e occidentale. Poi l'uomo migliorato per eccellenza, quello che Luciano prendeva da parte durante i ritiri per palleggiare col collo del piede, poi con la testa, poi con le ginocchia alternate. Due fari che Spalletti non vorrebbe mai perdere, un po' come tutto il gruppo. Il tecnico ha preso il Napoli per la pancia e per il cervello - allo stesso tempo - come nessun altro era riuscito a fare in questa città. I tunnel di Kvara al primo tocco quasi in ogni partita. La consacrazione col Liverpool, con l'Ajax e coi Rangers di Glasgow. Il gol di Osimhen al ritorno contro l'Eintracht e nella sua Roma all'80esimo che lo stava fischiando da un'ora. Ma come si fischia un uomo così. La fluidità del gioco offensivo negli scambi col centrocampo, l'urlo OSI ripetuto ad ogni controllo di Mario Rui. Cercate l'offesa, sempre. Poi l'epilogo triste - solo per i media - con De Laurentiis e gli attacchi a distanza. A lui come anche a chi lo aveva messo all'ottavo posto a inizio anno con le griglie (grigliate) estive da fanfarone. Ma il primo giorno nello spogliatoio del 2022-23 già qualcosa s'era mosso.

A Luciano Spalletti e alle sue capacità di allenatore non si potrà dire niente per un secolo a Napoli: ha fatto un terzo posto e uno Scudetto storico. Ha chiuso un cerchio e allo stesso modo lo ha aperto. Ha fatto breccia nella squadra, che è al numero uno tra le priorità in un club di calcio. Ha insegnato a comunicare, quindi a fare e a dire. E pure a nuotare nel famigerato mare che c'è di mezzo, la fase di nessuno come ama chiamarla. Ha incontrato il criticismo spicciolo di molti (quasi tutti) e lo ha azzittito su quel palco di Dimaro ma soprattutto sul campo. Ha chiesto l'aiuto del tifo e si è prodigato pur sapendo che avrebbe lasciato a fine anno. Una decisione così non si prende per un diverbio o per un contrasto, ma per un piano di vita. Spalletti ha deciso con i suoi figli di scegliere il Napoli e allo stesso modo avrà deciso di prendersi tempo per se stesso. Per guardarsi allo specchio questa volta da vincente, svegliandosi sempre in forma ma senza farsi deformare più da nessuno. Si è tatuato il Napoli sul braccio perché ha scoperto di essere sempre stato napoletano e di aver condiviso questa cavalcata con il suo meraviglioso team perché così c'era scritto nel destino: quello degli uomini forti. Al 5-1 alla Juve, ai Quarti di Champions, ai piedi per terra, agli sguardi sornioni in conferenza stampa, ai larghi sorrisi, ai nomi e cognomi fatti per indicare i ciarlatani con l'indice chiaro e teso, al 6-1 ad Amsterdam ma anche al 2-4 in casa contro il Barcellona, giocato male ma tutto di idee e filosofia. Ai "il calcio è semplice, a me non garba stare tutti dietro la palla", e "ho sempre perso ca***, per una volta che vinco mi fai la morale". Ai rigurgiti dei complimenti di Guardiola, all'emozione per il fratello Marcello, alle corse in campo ad abbracciare i calciatori. Alla strenua difesa delle proprie continue nuove idee.

Un grazie speciale, professionale e non

Mattia Fele

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