Il centrocampo a tre
—Spalletti-Santoro-Giuntoli o anche il trio dell'equilibrio. In mezzo tra squadra e presidente, viatico di tutti i passaggi tra dentro e fuori. Il confronto continuo per attenuare, attutire, rinvigorire. Trovare forza e pure dare forma alla realtà: Beppe, Cristiano, ma sarà vero ciò che stiamo facendo? Vedo bene? Siamo primi? Sì, Luciano. Poi testa al campo e occhi alle stelle, come gli piace dire. Anguissa-Zielinski-Lobotka stanno bene in questo discorso di bilanciamenti: sono il centrocampo più completo che abbia avuto il Napoli e che abbia allenato Spalletti stesso. Non sono individualità da capogiro, ma la compatibilità del collettivo in un ambiente sano fa tutta la differenza. Si pensi a Klopp che ha vinto una Champions con Fabinho-Henderson-Wijnaldum. Integrità di valori e compenetrazione di volontà. Così Spalletti nel suo dialogo è stato treccia legante con la città e i suoi sogni ma ha anche dovuto farsi aiutare. Ha avuto l'umiltà di chiedere aiuto, poi ha vinto ed ha rilasciato tutta l'adrenalina. In un grossa espirazione a polmoni spalancati.
L'offesa e l'attacco
—Kvaratskhelia e Osimhen. Il talento che nessuno si aspetta perché tutti credono di conoscere il calcio ed è visto materia solo europea e occidentale. Poi l'uomo migliorato per eccellenza, quello che Luciano prendeva da parte durante i ritiri per palleggiare col collo del piede, poi con la testa, poi con le ginocchia alternate. Due fari che Spalletti non vorrebbe mai perdere, un po' come tutto il gruppo. Il tecnico ha preso il Napoli per la pancia e per il cervello - allo stesso tempo - come nessun altro era riuscito a fare in questa città. I tunnel di Kvara al primo tocco quasi in ogni partita. La consacrazione col Liverpool, con l'Ajax e coi Rangers di Glasgow. Il gol di Osimhen al ritorno contro l'Eintracht e nella sua Roma all'80esimo che lo stava fischiando da un'ora. Ma come si fischia un uomo così. La fluidità del gioco offensivo negli scambi col centrocampo, l'urlo OSI ripetuto ad ogni controllo di Mario Rui. Cercate l'offesa, sempre. Poi l'epilogo triste - solo per i media - con De Laurentiis e gli attacchi a distanza. A lui come anche a chi lo aveva messo all'ottavo posto a inizio anno con le griglie (grigliate) estive da fanfarone. Ma il primo giorno nello spogliatoio del 2022-23 già qualcosa s'era mosso.
A Luciano Spalletti e alle sue capacità di allenatore non si potrà dire niente per un secolo a Napoli: ha fatto un terzo posto e uno Scudetto storico. Ha chiuso un cerchio e allo stesso modo lo ha aperto. Ha fatto breccia nella squadra, che è al numero uno tra le priorità in un club di calcio. Ha insegnato a comunicare, quindi a fare e a dire. E pure a nuotare nel famigerato mare che c'è di mezzo, la fase di nessuno come ama chiamarla. Ha incontrato il criticismo spicciolo di molti (quasi tutti) e lo ha azzittito su quel palco di Dimaro ma soprattutto sul campo. Ha chiesto l'aiuto del tifo e si è prodigato pur sapendo che avrebbe lasciato a fine anno. Una decisione così non si prende per un diverbio o per un contrasto, ma per un piano di vita. Spalletti ha deciso con i suoi figli di scegliere il Napoli e allo stesso modo avrà deciso di prendersi tempo per se stesso. Per guardarsi allo specchio questa volta da vincente, svegliandosi sempre in forma ma senza farsi deformare più da nessuno. Si è tatuato il Napoli sul braccio perché ha scoperto di essere sempre stato napoletano e di aver condiviso questa cavalcata con il suo meraviglioso team perché così c'era scritto nel destino: quello degli uomini forti. Al 5-1 alla Juve, ai Quarti di Champions, ai piedi per terra, agli sguardi sornioni in conferenza stampa, ai larghi sorrisi, ai nomi e cognomi fatti per indicare i ciarlatani con l'indice chiaro e teso, al 6-1 ad Amsterdam ma anche al 2-4 in casa contro il Barcellona, giocato male ma tutto di idee e filosofia. Ai "il calcio è semplice, a me non garba stare tutti dietro la palla", e "ho sempre perso ca***, per una volta che vinco mi fai la morale". Ai rigurgiti dei complimenti di Guardiola, all'emozione per il fratello Marcello, alle corse in campo ad abbracciare i calciatori. Alla strenua difesa delle proprie continue nuove idee.
Un grazie speciale, professionale e non
Mattia Fele
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