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editoriali

Tre anni senza “El mas grande”. Tre anni che è morto “El fútbol”

Alex Iozzi
25 novembre, anno 2020 dopo Diego...

Sei impegnato a platinare la tua routine quotidiana, divenuta ancora più stressante a causa dello scoppio di una pandemia globale, con la testa china sui libri ed un profondo sentimento di disprezzo verso figure d'autorità alle quali auguri i destini più atroci, vergognandoti per i livelli di cattiveria che un adolescente frequentante il terzo anno di superiori è capace di raggiungere. Ti concedi cinque minuti di pausa, giusto per scambiare due chiacchiere con i tuoi amici più stretti, condannati anche loro a giornate vuote e occupate principalmente da formule matematiche e capitoli della Divina Commedia, argomenti dei quali non ve ne può fregar di meno. D'improvviso ti arriva un messaggio, inviato dall'intelligente del gruppo il quale ha terminato i compiti per il giorno dopo da circa un'ora, trovando anche il tempo per anticipare gli impegni del fine settimana. Per la prima volta capisci cosa significa "provare invidia" verso un tuo simile, percependola con i tuoi sensi da piccolo umano. "Certo che potrebbe anche smetterla di sbandierare la sua vita perfetta al prossimo. Un briciolo di compassione, e che cavolo!". Entri nella chat, leggi il contenuto del messaggio: "Uagliù, è morto Maradona!".

Gracias D10S, desde cualquier planeta vengan

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Il tuo cuore perde un battito. "Ma no, sarà una fake news", rispondi attonito alla notizia. Poi ti dirigi in cucina dove la televisione è sintonizzata sul telegiornale. L'informazione riportata è la stessa. Ti dai uno schiaffo sulla guancia per capire se quello che stai vivendo è un incubo oppure la realtà. Il responso è - purtroppo - negativo. Sui social, nell'arco dei successivi dieci minuti, scoppia il pandemonio. Vedi disperata per l'accaduto anche gente che col calcio ha davvero poco a che fare. Per quella sera i problemi legati al virus vengono messi in secondo piano, così come la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Nulla è tanto importante quanto una simile tragedia. Ti giungono immagini direttamente dall'Argentina, di un popolo che di pallone ci vive, che preferirebbe morire piuttosto che vedere la propria fede cadere in battaglia, che stringe rapporti esclusivamente con i propri "fratelli", ma che solo per quella notte ammette uno strappo alla regola. Perché il dolore è condiviso, è di tutti, è di una nazione intera, quella stessa nazione alla quale "El Pibe" aveva regalato l'ultimo successo internazionale, un sogno materializzatosi sul prato verde dell'Estadio Azteca, in terra messicana. Scene alle quali non avresti mai pensato di assistere, un abbraccio tra un tifoso del Boca e uno del River, diventano realtà.

Vedi tuo padre appena tornato da lavoro coprirsi il volto, imbarazzatonel mostrarsi così irrimediabilmente fragile dinnanzi alla famiglia che quotidianamente sostenta lavorando più del dovuto in fabbrica. Lo stesso padre che ti ha fatto entrare in contatto col tuo primo amore, "El fútbol"; lo stesso padre che sente di aver perduto un punto di riferimento, un rivoluzionario che per qualche anno lo ha fatto sentire importante, rappresentandolo in un paese prettamente nordista; lo stesso padre che non perdeva mai occasione per raccontarti qualche aneddoto sulla sua figura - ormai li hai imparati a memoria -. Vedi tutto questo, vivi in prima persona un bagno di lacrime, una tristezza che accomuna l'intero globo terracqueo. Respiri la negatività e il malumore che aleggia nei corpi di chi ti sta affianco, martoriati da un evento il quale pregavano non arrivasse mai. Capisci che quella data segna la fine di un'era. Scoppi involontariamente in un pianto, coinvolto emotivamente dall'accaduto, e nella tua mente colma di pensieri esclami: "È morto il calcio".

A cura di Alex Iozzi

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