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NAPLES, ITALY - SEPTEMBER 11: Kaludou Koulibaly of Napoli celebrates his team's winning goal during the Serie A match between SSC Napoli and Juventus at Stadio Diego Armando Maradona on September 11, 2021 in Naples, Italy. (Photo by Maurizio Lagana/Getty Images)
È il 22 aprile 2018. Il Napoli sfida la Juventus in campo nemico, da dove neanche un punto era mai tornato a casa, al calduccio delle coperte. Maurizio Sarri è alla punta del suo lavoro all'ombra del Vesuvio e delle sue resilienti ginestre, alla fine di tre anni da pianto e pelle d'oca: nelle puntate precedenti ecco allora la rovesciata con diluvio di GonzaloHiguaìn nel 2016, l'abbraccio dello stadio e le lacrime d'addio. Così anche il gol del vantaggio di Mertens contro il Real Madrid un anno dopo, perché l’inno della Champions urlato fuori forte toglieva il respiro, raschiava dalla bocca l'amaro della sporca e difficile quotidianità. La Juventus aveva pareggiato a Crotone subendo una rovesciata da favola di Simy, il Napoli aveva rimontato il Chievo e l'Udinese al San Paolo riavvicinandosi pericolosamente al primo posto.
Superate le 22:30, dall'asse di sinistra Insigne lascia partire il suo solito cross per José Callejon, ben contenuto dalla difesa di Allegri con un blocco in diagonale dell'esterno e di uno dei centrali. Calcio d'angolo. Callejon sistema il pallone accuratamente e prende la rincorsa: tre-quattro passi, quelli di sempre. In area di rigore un'ombra si libera di Mehdi Benatia e all’89’ silura Buffon con un colpo di testa imprendibile. Di più si piange e si grida perché il risultato è lì accanto, perché con le ali la squadra ha raggiunto le nuvole. Poco importa l'insuccesso finale a Firenze: la città ha bisogno di chiudersi in un ideale, di avere innanzitutto qualcuno e qualcosa in cui credere. Il popolo ama ghiacciarsi al momento precedente al bacio alla maniera neoclassica, senza andare oltre. E così lo Scudetto restò dov'era: il secondo posto tolse un po' di vita ad uno spirito incendiato, benché il marchio impresso fosse già troppo grande.
Kalidou Koulibaly aveva segnato alla Juventus: il Sud aveva messo nel sacco il Nord, il potere era stato rubato dal Palazzo, Prometeo aveva tolto il fuoco agli dèi dell’Olimpo. Sotto al loro naso. Sotto alla loro gradinata. Il belgioco li aveva intasati, tanto che chiusero la serata con un record: per la prima volta allo Stadium non avevano neanche tirato una volta in porta. Nemmeno per sbaglio. Chi scrive ancora ricorda l'odore dei festeggiamenti a Capodichino (c'erano quindicimila persone, quindicimila ndr), la stretta di un padre con la voce rotta. Quello che il difensore senegalese ha fatto per Napoli è stato donare il permesso di riscattarsi e renderlo possibile mettendoci (anche) la testa. Masaniello avrebbe potuto imparare qualcosina.
Sarri gli ha tirato fuori una grinta differente e lo si vedeva già dalla postura, dalle letture in campo. Arrivava prima degli attaccanti e li mangiava se in progressione, li anticipava se su palla lunga. Gli chiudeva lo specchio se in difesa della porta. Era semplicemente invalicabile, con quel pizzico di incoscienza in più che poteva permettersi chiunque avesse accanto un Maestro come Raùl Albiol. Imparava in pochi allenamenti quello su cui altri impiegavano anni, come dichiarò il suo ex-allenatore al Metz, in Francia: “Se sbagliava una cosa la prima volta, sistematicamente la seconda volta la correggeva”. Si è guadagnato il rispetto dello spogliatoio e della città partendo in sordina, con Benitez che lo volle a tutti i costi e lo chiamava tutti i giorni. Passo dopo passo, mettendosi a disposizione e non tralasciando quel lato di sé un po' fanciullesco, costruendo rapporti solidissimi con i compagni (specie con Faouzi Ghoulam, da cui è inseparabile ndr), Kalidou s'è fatto la sua armatura.
Fu la consacrazione di chi dal nulla era venuto e tutto ha conquistato, saccheggiando in casa di chi era emblema di un potere inamovibile, che immobilizza e accentra, che impoverisce le periferie. E chi se non un ragazzo del Senegal può comprendere cosa significhi essere secondi, sentirsi meno considerati di qualcun altro. In quest'ottica si muovono le mani del gigante Kalidou, tese e protratte all'altro in ogni sua forma: è difensore per antonomasia di diritti, libertà individuali e interi gruppi di ultimi. Ha salvato intere famiglie, ha donato sorriso e speranza in virtù della sua straordinaria generosità. D'altronde, dietro ad un grande sportivo dev'esserci un grande uomo, che sappia darsi valore quanto offrire valori. Come dice Spalletti ci vorrebbe un pezzetto di Koulibaly per tutti, e diventa più facile.
Sabato pomeriggio scorso K2 l'ha rifatto: ha dato speranza e fatto tornare il sorriso a milioni di tifosi, segregati in casa per più di un anno e mezzo e soli come non mai. Li ha fotografati nel loro momento più vivace per tener quella bellezza con sé, per ingabbiare il ricordo dell'essere stato ancora una volta l'uomo di Napoli-Juventus. Dopo l’80’, sugli sviluppi di un calcio d’angolo (ancora), ha accompagnato elegantemente il pallone della vittoria alle spalle di Szczęsny dopo un errore clamoroso di Kean, improvvisamente posseduto dal Destino. Di più, decisivo contro i bianconeri fu anche nel 2019, ma al contrario: al 92’ un suo autogol - su un calcio di punizione di Pjanic - regalò un 4-3 insperato proprio a Sarri, in tribuna perché squalificato. E quella lì sembrava la definitiva sconfitta, il nuovo ridimensionamento a piccola provincia.
Spesso i risultati del Napoli ancora dipendono dal suo campione, il suo vice-capitano nel bene e nel male. Ma questo è il peso delle responsabilità che solo i grandi possono conoscere e apprezzare, perché di certo vince solo chi rischia, cade solo chi corre. E il 29 aprile 2018, una settimana dopo, Kalidou lasciò i suoi compagni in dieci uomini atterrando un giocatore della Fiorentina al limite dell'area, nei primi minuti. Alla città non è mai pesato. Durante un Inter-Napoli applaudì l'arbitro che non s'era accorto di alcuni ululati nei suoi confronti e fu espulso. I suoi compagni persero al 90'.
Ma se è vero - come disse una volta Nelson Mandela - che il ricordo è il tessuto dell'identità, Napoli sarà sempre grata al suo condottiero col 26. Perché nella città ha rivissuto il piacere della scalata, perché si è sentito rappresentato da un luogo in costante battaglia contro se stesso. Perché è stato turista e perfetto ospite, perché ha fermato Mbappé rialzandosi subito in piedi. Perché al suo passaggio si voltano anche le foglie. Perché ha carisma, perché sa amare. Perché ha battuto due volte la Juventus di Allegri.
Lo hai fatto di nuovo.
A cura di Mattia Fele
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