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Era assurdo pensare che Rudi Garcia avrebbe allenato il Napoli «copiando» Spalletti

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Il Napoli di Garcia e quello di Spalletti non possono essere uguali. Perché Garcia e Spalletti non sono uguali. È come dire che il mare è bagnato, ma alcuni in Italia ne hanno bisogno perché vivono d'opinioni soltanto retoriche
Mattia Fele
Mattia Fele Editorialista 

Il mondo dell'opinione legata al calcio non smette di sorprenderci mai. O meglio ci dà nuovi spunti ogni giorno. In piazza c'è davvero chi credeva che Rudi Garcia, uomo che a febbraio compirà 60 anni e che è nel calcio da 40, avrebbe allenato il Napoli campione d'Italia dando due indicazioni qua e là, facendo vedere i video dell'anno scorso per preparare le partite e tenendo un santino in foto di Luciano Spalletti nello spogliatoio. Magari avrebbe pure chiesto consiglio ai giocatori stessi sui cambi, sulle rotazioni pre-Champions e su come volessero essere motivati in vista dei tanti impegni. O ancora, magari, avrebbe dovuto riascoltare le conferenze (bellissime) di chi l'ha preceduto per attenersi al sacro copione che ha portato ad ammansire pure i giornalisti sempreverdi e poco inclini all'equilibrio. Tant'è. Nessuno ha pensato che tutto questo sarebbe stato un grande insulto alla professionalità di qualunque individuo?

Di ovvie unicità

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Chi scrive ha stima di entrambi gli allenatori che si sono avvicendati sulla panchina del Napoli ma ancor di più ne ha per la diversità umana. Che è un valore sempre. È ovvio che se qualcosa di questo Napoli somiglierà a quello scorso sarà perché - oltre ad aver mantenuto praticamente quasi tutti i calciatori, questo è chiaro - Aurelio De Laurentiis ha scelto un profilo che tutto sommato mantiene dei princìpi di gioco che si somigliano. Un calcio offensivo, un 4-3-3 che diventa anche 4-2-3-1 all'occorrenza. È ignoto però come si potesse pensare che l'esperienza di Garcia e le idee, i pensieri potessero (o peggio, dovessero) del tutto uniformarsi a quelli di Spalletti. Che innanzitutto si aggiorna di continuo e ha due mantra: costruzione e recupero palla. Costruisce coi terzini che diventano mezzali e con il centrale di centrocampo che viene in mezzo a prendersi il pallone, i centrali difensivi larghi. Quasi mai va diretto testa alta verso la porta. Garcia - da sempre - costruisce con i terzini e manda dentro le mezzali per riempire l'area di rigore il più possibile, spacca le linee di difesa e centrocampo perché i centrocampisti devono essere già lì per la riconquista. Spalletti, invece, ama riconquistare creando densità in zona palla e altrimenti - se non ci si riesce subito - chiede a tutti di abbassarsi e scappare. Nel profondo piccole differenze di vedute e di impostazione che sul campo possono essere abissali incongruenze. Di ovvie unicità.


Garcia ha chiaramente notato quest'aspetto comunicativo e questa pressione che potremmo chiamare dell'uguaglianza costretta, questo inebetirsi di passato e rannicchiarsi per tenerlo con sé. Al punto che in conferenza, alle domande sull'anno scorso e sulle eventuali differenze risponde: non lo so, non c'ero. Che ovviamente è una risposta senza senso. Ovvero di grande diplomazia, che è la bugia politica entrata nel pallone. È ovvio che Garcia abbia studiato il Napoli dell'anno scorso e le prestazioni dei suoi attuali giocatori. È solo che non può sopportare di essere stato assunto per continuare il lavoro di un altro. Nessuno di noi potrebbe imitare il suo predecessore una volta ingaggiato per un compito, e non è solo una questione di orgoglio o convenienza. Una macchina perfetta non è detto che continui ad esserlo con la sostituzione anche di un minuscolo ingranaggio, per cui tanto vale metterci le proprie mani e vedere se anche il proprio meccanismo combacia. Se si può vincere in altra maniera. Adani ha ragione: il Napoli non è quello di Spalletti, ma non è detto che quello di Garcia non possa vincere.

Per questo e per altre ragioni, tacciare Garcia di essere poco furbo per non aver giocato d'imitatio con Spalletti è una roba da vedovelle. Successe lo stesso quando a Napoli si diede del pensionato a Carlo Ancelotti e del raccomandato a suo figlio perché non adatti a Napoli e perché troppo lontani dalla bellezza di Sarri dell'anno prima. Poi Ancelotti ha vinto la Champions League. Di certo, e questo è un parere squisitamente calcistico, è vero che una squadra come il Napoli ha bisogno di uno spartito per stare ai vertici delle competizioni per cui gioca: di un'identità sul campo. Di occupare bene gli spazi e le posizioni perché non ha calciatori estremamente atletici, noti e tecnici. Ha un grandissimo collettivo che limita i danni col grande spirito di sacrificio di tutti nei confronti di tutti. Ha poi un reparto offensivo straordinario e in Zielinski-Lobotka-Anguissa un trio molto compatibile quanto a distribuzione di caratteristiche tecniche. Garcia questo lo sa bene e tutti ricordano il 3-5-2 iper-difensivo con cui il suo Lione arrivò in Semifinale di Champions League, nonostante sia e fosse un patito del gioco offensivo. Questo ci fa capire che è un uomo che si cala nelle realtà e le legge per quelle che sono. Quella del Napoli è da 4-3-3/4-2-3-1 (lo capirebbe anche un bambino ndr). Ma è il suo 4-3-3/4-2-3-1. Con pregi e difetti.

Nella forma e nella sostanza sarà un Napoli diverso. Che può anche non piacere o essere più divisivo, meno amato dagli avversari e dai tifosi perché ha meno dominio ed è più in equilibrio rispetto al campionato. Può perdere più partite e giocarne altre magari con picchi superiori rispetto all'anno scorso. Pur considerando che anche per Spalletti questa stagione sarebbe stata difficilissima. Non per nulla ha mollato.

Di Mattia Fele

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