editoriali

Maglie sempre più estrose: ma se i tifosi si sentono «clienti» l’amore paga dazio

Giovanni Ibello

Il tifoso è il cliente o... il committente di un club?

Divise sempre più estrose: tifosi in crisi di identità

Se è vero che "la realtà è quella che si vede" allora il calcio non è dei procuratori; il calcio appartiene agli stilisti più estrosi. Battute a parte, le nuove divise stanno via via prendendo il posto degli storici vessilli. Da circa 10 anni, la riconoscibilità di un club è minata da esperimenti cromatici che destano parecchie perplessità. Ammettiamolo pure senza riserve. Facciamo un passo indietro. In Premier League i tifosi si recano abitualmente allo stadio indossando la maglia della propria squadra del cuore. Due i motivi. Il primo: mostrare il proprio orgoglio, il proprio senso di appartenenza: parliamo di una passione che si tramanda di padre in figlio, di un sentimento che ha a che fare con il grande tema delle origini. Il secondo: avvolgere l'avversario nei propri colori sociali (circondarlo) significa incutergli timore. Lo dice anche Sun Tzu nell'arte della guerra: la bandiera issata al vento fa bene al morale e scoraggia il nemico. Ecco, parliamo di un qualcosa che oggi non potrebbe mai accadere. Siamo onesti: oggi per un tifoso è difficile capire con assoluta certezza quale sia la maglia ufficiale della stagione in corso. Ed è impossibile per i napoletani ammantare le gradinate con un solo drappo azzurro. Basti pensare che quest'anno il club azzurro ha già sciorinato 10 divise diverse in trenta partite!

Divise sempre più estrose: il tifoso è il cliente o... il committente di un club?

 

Qualcuno potrebbe storcere il naso e dire che così facendo si va a minare quel senso di appartenenza che è già in netto calo rispetto agli anni passati. Alcuni tifosi del Napoli, a dirla tutta, hanno perso interesse verso il calcio dopo lo scandalo del mancato scudetto 2018; ma questa è un'altra storia. In ogni caso, quale che sia la ragione profonda, il calo c'è, ed è evidente. Parliamo per esempio di Napoli-Salernitana. Malgrado i 5000 tagliandi messi a disposizione (una miseria) non c'è stato sold out.

Tornando invece al discorso-maglie bisogna riconoscere che certe operazioni di marketing sono necessarie per mantenere alto il livello di competitività. Il Napoli non ha mamma-exor che gli guarda le spalle. Non ha la casse della Juve che risponde all'incompetenza dei propri dirigenti (i risultati del dopo-Marotta sono sotto gli occhi di tutti) con la moneta sonante. "Le cose vanno male? Ricapitalizziamo e andiamo a prenderci Vlahovic". Troppo facile. Il Napoli deve rispondere con mezzi ed espedienti che vanno ben oltre il patrimonio di famiglia. Per rispondere "all'arroganza del potere" bisogna metterci qualcosa i più: l'inventiva, la cazzimma, chiamatela pure come vi pare. Fatto sta che il kit di maglie proposto dal club di De Laurentiis sta rendendo e non poco. La versione Halloween e le tre casacche dedicate a Maradona sono già sold out sullo store online del club.

C'è chi chiama la mamma per farsi dare i soldi e chi deve mettersi in proprio

D'altra parte - e qui il discorso torna generale - se il tifoso ha la percezione che il calcio ha perso definitivamente quel briciolo di genuinità che gli restava, inizia a sentirsi cliente di una grande azienda e non il suo "legittimo" proprietario (le virgolette sono obbligatorie). Eppure, ogni club sa bene che tifosi sono i propri committenti. Sembra (e forse lo è) la più banale delle verità, ma il calcio senza supporter non esiste. La divise larghe e sfilacciate dai colori sobri erano certezze granitiche. Fino a 10 anni fa, l'attaccamento ai propri colori aveva una sua "dimensione materica". Era legato al possesso fisico della maglia-feticcio. Oggi non è più così. Forse, a furia di ascoltare storie su tradimenti e rocambolesche cessioni, il calcio sta perdendo quell'aura di romanticismo che va ben oltre il marketing di prossimità e il copywriting aziendale. Il calcio è ancora una fede? Difficile a dirsi, ma una cosa è sicura: la fede si nutre di se stessa e non può mai stringere intime alleanze con il quello che, il calcio, lo sta devastando: il business.

a cura di Giovanni Ibello