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editoriali
"Ganar, ganar y volver a ganar", diceva Luis Aragonés. Nessuna scusa, nessuna via collaterale per affermarsi e rendersi immune a un epilogo amaro. Il calcio è fatto di emozioni per i tifosi, che alla maglia restano legati comunque. Tuttavia per chi è in panchina, per chi scende in campo e ancor di più per chi amministra un club, il calcio è fatto di risultati. I numeri parlano e sono come la vita di Totò: una livella. Non conta cosa hai fatto né quanti trofei hai vinto e come sei riuscito a conquistarli, conta quello che sarai capace di fare dal momento in cui comincia una nuova storia professionale.
I numeri di Carlo Ancelotti hanno fatto il giro del mondo e gli hanno aperto la walk of fame di sempre. Non c'è chi possa negarlo e non c'è chi non possa accomunare le sue esperienze alla frase di El sabio de Hortaleza. Ha vinto e convinto, ma non a Napoli. Una città diversa, dove diversa può significare tutto ciò che chi legge preferisce, nella quale non puoi arrivare pensando che ce la farai. Lo devi dimostrare per forza. Arrivi senza un prima e senza sapere dopo come finirà. Una missione più sociale che personale. Re Carlo, come un po' chiunque lo chiama, poteva essere l'unico all'altezza del compito di raccogliere la poltrona di Maurizio Sarri. Ma non è andata così. O meglio, non proprio.
Ciò che è accaduto all'interno degli spogliatoi del San Paolo dopo Napoli-Salisburgo, l'ammutinamento e l'insubordinazione della squadra, ciò che ci si è detti a Castel Volturno e che ognuno dei calciatori pensa per sé, nessuno mai potrà dettagliarlo con la presunzione che si tratti della verità assoluta. Qualche volta bisogna arrendersi all'evidenza e considerarla causa ed effetto di ogni divergenza, malumore, distanza, esonero. Ognuno ha la spiegazione, ma tutti condividono la colpa. De Laurentiis avrebbe potuto intervenire meglio e/o diversamente? Senz'altro. La squadra avrebbe potuto assumere un atteggiamento più maturo? Certamente. L'allenatore avrebbe potuto gestire meglio la rosa a sua disposizione? Indubbiamente. Un concorso di colpe ha reso quello che il patron aveva definito un "matrimonio" un "divorzio" inevitabile, che non ha visto nessun protagonista esente da dispiacere e commozione. A volte pesano le consapevolezze, come quella che tutti avrebbero potuto fare meglio e un passo indietro rispetto alle proprie convinzioni, per il bene comune.
Ma queste restano idee, mentre rimane il campo. Rimane un Napoli formato Champions League, che in campionato è stato la controfigura sbiadita di se stesso. Una squadra che con il 4-4-2, modulo utilizzato per la maggiore, era sprovvisto di bussola e carte di navigazione. Fabian un lontano parente di quello incoronato miglior giocatore dell'Europeo Under-21 con la Spagna. Ancelotti gli ha dato spazio e fiducia, ma non continuità nelle sue naturali doti da mezzala. E il centrocampista è soltanto uno della lista degli spaesati, capitanata da Hirving Lozano. Il messicano, che ha fatto tremare Ciudad de Mexico per un gol, ha dimenticato come si segni. Un nuovo campionato, una nuova squadra, una nuova lingua e la convinzione che potesse essere una punta centrale. Quella stessa capitale nordamericana avrà rabbrividito solo a pensarlo. E Insigne? E Zielinski? Non ci siamo capiti evidentemente e nemmeno messi a disposizione gli uni degli altri. E non sempre, allora, dal caos nascono le stelle. Nasce il disordine e lo screzio, e il timore che non se ne uscirà.
Ha pagato Ancelotti perché alcune squadre sono come alcune classi di un'aula, ha detto De Laurentiis, i cui alunni vanno disciplinati ed educati. Paga Carlo perché credeva di riuscirci e non è andata così. Paga il Re di Coppe perché cade sempre una testa, ed è in ogni occasione quella di chi siede in panchina. Ma il conto più salato è quello servito al tavolo dei tifosi, che di questa storia poco hanno capito e poco capiranno. Com'è possibile che un gotha del calcio internazionale non sia riuscito a proporre a Napoli quel 10% della sua storia che Gattuso, ora sulla panchina azzurra, sogna di poter realizzare?
Incomprensioni, testardaggine, convinzioni sbagliate quindi incomunicabilità di idee e concetti. Mancanza di sinergia. Ed è stato un peccato e forse la commozione di Carlo Ancelotti nel suo ultimo giorno a Castelvolturno e quella negli occhi di vari giocatori è piuttosto un alone di pentimento. Oltre alla consapevolezza di aver perso una grande occasione.
Napoli è accogliente, ma è selettiva e pretenziosa. Non ha tempo nemmeno di perdonare, va di fretta perché è la grinta che la mantiene viva.
Se non si aggiunge niente, allora meglio sottrarre. E così è finita la storia di Carlo Ancelotti al Napoli, anche se la sensazione vera è che non sia mai cominciata.
Non ci siamo mai capiti, eppure ci abbiamo provato. Ancelotti è colui il quale si è alzato in piedi, in una sala diplomatica e gremita, per mettere in discussione gli arbitri con Rizzoli, per difendere Koulibaly dal maledetto razzismo e Milik da chi non credeva potesse ancora giocare per il Napoli. Ancelotti è chi ha preso Gaetano, l'ha abbracciato e, e nella notte che sapeva sarebbe stata l'ultima, gli ha concesso l'esordio in Champions League. Il suo saluto, la sua "benedizione" e la sua gratitudine per essersi affidato al progetto che voleva costruirgli intorno. E forse, allora, vale la pena ricordare, e sarà polemica, che non tutti ci avrebbero pensato: Christian Maggio sta ancora aspettando di abbracciare il San Paolo.
"Non è il mio Napoli", disse una volta Ancelotti per restituirlo ai tifosi. Ma magari, se lo fosse stato, la gente felicemente glielo avrebbe concesso.
Buona fortuna, sir. E' stato comunque un privilegio.
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